Autobiografia.

1/5/1968: Festa dei lavoratori.

Alle ore 17:00 nasco a Palermo, alla clinica Macchiarella, sotto il segno del toro, ascendente bilancia. Pesavo 5,4 chili ed ero pieno di capelli scuri. La gente, incredula, faceva la fila per vedere questo “Cristiano” (nel senso di adulto) che era nato con un parto naturale. Mia madre ne uscì’ devastata: vent’anni, primo figlio, trenta ore di travaglio. Come abbia potuto anche solo pensare di mettere al mondo altri tre figli per me rimane tutt’ora un mistero.

Mi hanno chiamato Rosario, come il nonno paterno. Prima di me era nata mia cugina Francesca, figlia di mio zio Pino, ma io ero il primo maschio, l’erede dei Cosenza!

Sono cresciuto con le mie zie, appena più giovani di mia madre: Sara, Franca e Lucia. Sara in particolare aveva una predilezione per me. A sei mesi mi ammalai di rosolia e, per paura delle complicanze, lei rimase con me in camera da letto per quasi tre mesi. Qualcuno le aveva detto che uno spiffero d’aria sarebbe stato sufficiente ad uccidermi e lei non sarebbe uscita da quella stanza neppure da morta. E guai a chi pensava di farmi uscire anche solo per prendere una boccata d’aria: avrebbe dovuto vedersela con lei! Poi guarii e il pericolo di una morte imminente fu scansato. Dormivo nella camera da letto dei miei genitori, ma nella mia culla. Intorno alle 20 bisognava fare molta attenzione a tenere ben chiusa la porta della stanza da letto perché, subito dopo il carosello, iniziava Dadaumpa, la sigla cantata dalle gemelle Kessler e in un attimo io ero in piedi nella culla, aggrappato alle sponde laterali, sbattendole forsennatamente a ritmo di musica, rischiando anche di romperle e di farmi male. Per me Dadaumpa era un grido di battaglia, il richiamo della foresta a cui non potevo resistere. Dovevo necessariamente alzarmi e muovermi.

Zia Sara mi adorava. Ogni giorno mi portava giocattoli e caramelle, ma non conservo nessun ricordo ne dell’uno e ne dell’altro. Invece ricordo benissimo la sua passione per la musica, soprattutto per Lucio Battisti, che ovviamente mi trasmise. Aveva una pila di 45 giri piuttosto rovinati con cui mi lasciava giocare. Come? Semplice! Io avevo dieci mesi circa o forse un anno, ma non di più. Mi metteva seduto sul pavimento o sul tavolo della cucina e posizionava la pila di 45 giri in mezzo alle mie gambe. Io pendevo dalle sue labbra. Pensava, pensava, schiudeva le labbra come per pronunciare una sillaba per poi ritirarsi, mentre la mia ansia cresceva sempre più. Poi, improvvisamente, gridava tutto d’un fiato il titolo di un brano o il nome di un cantante: “Fiori rosa fiori di pesco!” ed ecco che io, come un giocattolo a cui avessero dato la carica, cominciavo a sfogliare i dischi con entrambe le mani, lanciandoli a destra e a sinistra in un baleno fino a quando non lo trovavo. E lo trovavo. Sempre!

Sicuramente memorizzavo l’etichetta attaccata sul disco, ma questo non era sufficiente. I dischi di Battisti si dividevano in due periodi: il periodo Ricordi, con l’etichetta metà arancione e metà nera e poi il periodo Uno, tutto verde. Ma i dischi sia dell’uno che dell’altro periodo erano diversi, almeno una decina in tutto. E poi, nella pila c’erano pure dischi di altri cantanti che incidevano sempre per la Ricordi. Come facessi a riconoscere i vari dischi l’uno dall’altro non l’ho mai capito! Fatto sta che il gioco riusciva sempre.

A casa di mia nonna c’era un giradischi a valigetta di colore verde acqua, tipico degli anni ’60, che lei teneva sottochiave in salone. Non voleva assolutamente che venisse toccato per paura che si rompesse. Ma io e zia Sara eravamo pazzi per la musica e non potevamo certo lasciarci intimidire da una porta chiusa. Uscivamo in balcone dalla cucina dove si apriva anche la porta del salone. La serranda era chiusa per evitare che la calura dell’estate arroventasse il salone, ma la porta interna era aperta per fare circolare l’aria all’interno. Sara alzava piano piano e con tutte le sue forze la serranda azzurra calata giù sino al pavimento per permettermi di strisciare all’interno del salone. Il nostro era un codice fatto di sguardi complici e ci dicevamo tutto senza proferir parola. Poi toccava a lei, magra come un’acciuga. In un attimo sgattaiolava dentro ed ecco che davamo inizio alla festa. Accendevamo quel giradischi e suonavamo tutti i suoi 45 giri ad alto volume, mentre la nonna dall’altra parte gridava come una forsennata di spegnere il giradischi e che ce le avrebbe suonate di santa ragione se si fosse rotto. Sara mi faceva ballare tenendomi a cavalcioni sui suoi fianchi, fino a quando non ci buttavamo a terra esausti! Ad un certo punto, non so come, la nonna riusciva ad entrare, dandogliele veramente di santa ragione. Ma era inutile, perché tanto lo avremmo rifatto e anche molto presto.

Un giorno ruppi il braccio del giradischi. Non so come feci; fatto sta che il braccio si stacco’ letteralmente dal giradischi e per la violenza del mio gesto fini dietro il divano arancione. Sara era disperata, la nonna un po’ meno. Semplicemente pretese da mio padre che lo facesse aggiustare immediatamente. E così fu. Lo dovette portare da un tecnico e pagare le spese per la riparazione.

Per qualche giorno rimasi a casa con mamma , senza musica, a giocare con i 45 giri sparsi sul pavimento. Poi mia madre riusci’ a convincere mio padre ed ebbi finalmente il mio gioiello: un mangiadischi celeste, marca Geloso, tutto per me.

I miei parenti mi raccontano che io e il mangiadischi vivevamo in simbiosi. Lo portavo sempre con me, insieme ad una borsa di pezza dove tenevo i dischi.

Ogni tanto mia zia mi regalava qualcuno dei suoi dischi di cui si era stufata e di nascosto mia madre ne buttava via qualcuno dei miei, di quelli ormai simili alla carta vetrata.

E poi venne l’estate.

Ad agosto partimmo in vacanza con La seicento bianca fiammante. Andammo a trovare i parenti di mio nonno materno, nonno Carlo Montefusco, a Scafati, in provincia di Salerno. Mamma mi raccontava che sul sedile posteriore dell’auto aveva sistemato il materassino della culla e che io viaggiavo divinamente. O dormivo o giocavo sia con il mangiadischi che con altri giocattoli. Non ricordo quasi nulla del viaggio in se, ma una cosa la ricordo benissimo. Arrivati da una delle zie di mamma a Scafati, posteggiammo l’auto sotto casa, prendemmo i bagagli e salimmo su. Io avevo dimenticato il mangiadischi e tutti i dischi in macchina, sulla mensola dietro i sedili posteriori, quella che copre il portabagagli. Era troppo tardi per andarli a prendere ed eravamo tutti troppi stanchi. Dopo aver cenato e festeggiato a dovere, andammo finalmente a letto. Eravamo distrutti e crollammo come delle pere cotte.

Il giorno dopo ci svegliammo tardi e solo dopo pranzo si decise di fare una passeggiata. L’auto era rimasta tutta la mattinata parcheggiata sotto il sole ed era rovente. Entrammo dentro e il mio pensiero, ovviamente, fu di recuperare i miei dischi. Ecco, quel momento è rimasto impresso nella mia mente in tutta la sua tragedia. I dischi erano tutti accartocciati, irrecuperabili. Piansi come un disperato e nulla riusciva a consolarmi.